A Painter’s Tale e la cultura marginale del videogioco italiano



«La montagna insegna una cultura marginale, discreta alle donne e agli uomini, a piante e animali, elementi e cicli naturali».

Così scrive il filosofo Francesco Tomatis nel suo imponente La via della montagna (Bompiani, Milano 2019, p. 39).

Vorrei partire da qui per ricordare come il panorama videoludico italiano abbia recente visto l’ingresso di un videogioco che intende e declina questa “marginalità” in almeno due modi, entrambi di estrema rilevanza. Parlo di A Painter’s Tale: Curon, 1950 (Monkey Tales Studio, 2021). È la storia del borgo altoatesino sommerso. Quello col campanile che emerge dalle acque e che, di recente, qualcuno ha scoperto attraverso una serie televisiva di Netflix. È una storia che struttura un ponte verso il passato, sia portandovi direttamente il protagonista del videogioco (il quale si ritrova all’improvviso nella Curon del 1950), sia perché pone la questione e il problema della memoria. Una necessità attuale e impellente, considerando la velocità con cui si cerca – talvolta anche scientemente – di dimenticare il passato, soprattutto se locale, relegandolo nell’angolo dei vecchi giocattoli muffiti, delle cose alle quali non ci si può più dedicare quando si è ‘grandi’.

La maledizione delle serie italiane targate Netflix continua,
Curon, dopo Luna Nera, non riesce del tutto a convincere, soggetto evocativo ritmi troppo dilatati. Non ci siamo [aku]

La memoria, tuttavia, non è un balocco invecchiato male. Ed ecco allora che il team di A Painter’s Tale ha creato un videogioco per raccontare una storia assolutamente marginale. E per farlo è ricorso al medium videoludico, che è il più serio di tutti proprio grazie all’orgogliosa autoconsapevolezza di quanto possa essere serio il gioco. Ma vediamo meglio in cosa consiste, questa marginalità di A Painter’s Tale, ma soprattutto perché mai debba essere qualcosa di cui interessarci. La «cultura marginale», che la montagna ci insegna e che citavamo in precedenza, è riscontrabile secondo due accezioni. Punto primo. A Painter’s Tale è marginale per la sua liminalità, perché racconta di una terra di confine, di una comunità ai margini fra due mondi. Come si legge sul sito di IVIPRO, «‘A Painter’s Tale’ è una storia di incontro e scontro tra culture, quella italiana e quella tedesca». Il che, se ci pensiamo, è tipico delle montagne. Come ha sottolineato in più occasioni Annibale Salsa (qui, per esempio), le Alpi sono una cerniera all’interno dell’Europa, e non una barriera. Quando divengono tali è perché hanno subìto qualche nefasto influsso di poteri politici. Punto secondo. Che poi è conseguenza e corollario del primo, in questa storia.



A Painter’s Tale è marginale per la sua disparità, perché racconta di una terra oppressa, di una comunità schiacciata. Come si legge sul sito del videogioco, «The plans for the dam started during the Fascist era, opposing the interests of a big industrial group to the wellbeing of the villagers, who were forced to leave their homes and pastures». Il che, se ci pensiamo, ci riporta di nuovo alle montagne.
Per citare nuovamente Francesco Tomatis, «proprio perché è di tutti, la montagna è anche di nessuno in particolare e quindi esige rispetto, discrezione, ascolto da parte di ciascuno. Nessuno è legittimato a trasformare la montagna» (La via della montagna, p. 394). E pensate che, in questo passo, Tomatis sta parlando di tredici spits (tasselli autoperforanti usati nell’arrampiacata) al Corno Stella. Tredici ‘chiodi’ (in realtà non lo sono, ma giusto per capirci sulle dimensioni) che perforano la roccia e feriscono la montagna. Figuratevi, in proporzione, quale ferita sia stata quella causata dall’episodio di Curon. Tanto più grave perché non ha intaccato solo la roccia di una montagna: ne ha intaccato la cultura.
Su questo punto è bene chiarirsi un attimo. La preservazione dell’ambiente alpino non significa vedere quei luoghi abbandonati, de-antropizzati e rinselvatichiti. Non sarebbe più montagna senza quella che è la sua cultura locale. Anzi, le sue molteplici culture locali. Il problema è che troppo spesso non sono loro a poter decidere, ma c’è sempre dietro la città, la pianura, la metropoli.

                                             

Quella che, nel 1950, esprimeva gli interessi e gli appetiti di grandi industriali e che, senza porsi troppi problemi, sacrificava una “marginalità” per gli interessi di un “centro”. Gli stessi interessi che magari oggi non vanno a sommergere paesi, ma che – per esempio – disboscano interi versanti montuosi perché ci vuole la nuova pista da sci, in troppe occasioni avanguardia della “città” e delle sue mire sull’ambiente alpino. «Nessuno è legittimato a trasformare la montagna», ricordiamolo di nuovo. Ma quando già è stata trasformata, e ferita, è doveroso che venga perlomeno ricordata. Non che tutto ciò possa servire a riavvolgere le lancette della storia: nella Curon del 1950 ci possiamo tornare solo all’interno del videogioco. E non è nemmeno un gesto da fare per qualche pietismo riparatorio. Ma può essere una riflessione, uno spunto e un monito. Forse è la tentazione dell’utopia, questa, il desiderio che la memoria dia senso all’agire presente e futuro. Tuttavia, utopia o meno, potremo perlomeno dire di aver assaporato il privilegio di poter ricordare questa «cultura marginale», di esser stati messi nelle condizioni di poterlo fare. Ciò che più mi interessa, però, non è neanche questo. Ragionare sulla montagna e su Curon è giusto e doveroso, ma questa è solamente una delle tante storie ai margini. L’interrogativo da porsi è se, e come, A Painter’s Tale verrà seguito da altre produzioni italiane.
Bisogna ragionare sulla sequela. Non sempre si segue i più bravi, i più belli, i più votati. Ci verrebbe da dire che è sempre così, perché la moda lo impone, così come lo impone (o sembra imporlo, nelle sue imperscrutabili cabale) il mercato, e i social, e tanto altro. Questa è la logica del follow, però. È la prospettiva del “sono informato su ciò che fai” o magari anche del “ti voglio copiare”. Il che non la definirei una sequela nel senso più alto e nobile del termine. La sequela assume il suo senso pieno quando si segue chi, a sua volta, segue qualcun altro.

Se avete visto o letto My Hero Academia l’esempio ottimale è a portata di mano (e senza particolari spoiler, essendo un evento in apertura). Il passaggio di One for All da All Might al giovane Deku assume il suo pieno significato nel fatto di non essere un legame a due. La stima di Deku verso All Might può essere la logica del follow, perché egli ammira il grande eroe, ma All Might ha ricevuto a sua volta quel potere, sta portando avanti una sequela. Ed è questo anche che fonda il legame più profondo fra i due, proprio perché non li riguarda più esclusivamente, ma li lega a tutti coloro che hanno portato e fatto crescere One for All nel corso del tempo. Ora, A Painter’s Tale non è il videogioco più bello, bravo e votato della storia. Non lo dico assolutamente in senso ironico, né voglio denigrarlo. È un prodotto interessante, con tante qualità, ma se uno devesse basarsi sul follow guarderebbe da ben altra parte, in direzione di chi ha ben più successo. Ma io credo che anche A Painter’s Tale faccia parte di una sequela. Credo che meriterebbe di essere seguito proprio perché ha seguito a sua volta. Che ci si pensi oppure no, c’è nel DNA dei videogiochi italiani questa attenzione alla «cultura marginale». E in questo momento la staffetta, il “One for All” (per stare sul nostro paragone di poc’anzi), tocca a questo videogioco di Monkey Tales Studio, che non è stato tuttavia il primo. Pensiamo ad Anna (Dreampainters, 2012), non perché abbia un primato assoluto, ma giusto per fare un esempio. Un videogioco che, nel 2012, si è messo a parlare della cultura dei sabotier (i fabbricanti di zoccoli) della Valle D’Aosta. E lo ha fatto ricostruendo una segheria che esiste per davvero, a Periasc, dalle parti di Champoluc. E ha condensato pure al suo interno il folklore locale, con i suoi miti ancestrali e le sue leggende.

Andiamo avanti di qualche anno: The Town of Light (LKA, 2016). L’ex manicomio di Volterra. Una marginalità che è nuovamente presentata come disparità di potere, di un potere numericamente fondato, in cui i ‘matti’ sono lobotomizzati dai ‘normali’. Ma anche una marginalità che ha questa dimensione locale e localistica, legata a territori specifici dell’Italia. E poi c’è Wheels of Aurelia (Santa Ragione, 2016). C’è Venti Mesi (We Are Mūesli, 2016). C’è The Umbrian Chronicles (Entertainment Game Apps, 2020). Ben prima ci furono I misteri di Maggia (Stelex Software, 2004), che in realtà è ambientato in un comune svizzero del Canton Ticino, per cui non siamo propriamente in Italia, ma possiamo sicuramente inserirlo nel novero. E ce ne sono diversi altri. Io non so se possa essere questa, la specificità delle produzioni italiane. Il che non vorrebbe comunque dire che tutti quanti facciano così, né che tutti quanti dovrebbero fare così. Assolutamente. Spero anzi che si producano sempre più videogiochi di qualità, in Italia, che abbiano le gambe per camminare da sole e sapersi diffondere. E spero che in questa produzione crescente ci sia un po’ di tutto, c’è anche bisogno di ampi spazi e fantascienza, per esempio, come quella che potrebbe offrire il futuro Haunted Space di Italian Games Factory.

Tuttavia, dove ci sono diversi prodotti che seguono una direzione comune, prima o poi un filone salta fuori, fosse anche solo identificato a posteriori da qualche accademico. È avvenuto con tantissime correnti letterarie, nei quali non sempre i vari poeti radunati sotto una certa etichetta fossero consapevoli di agire all’interno di una sequela. Allo stesso modo, non voglio dire che ci sia questa consapevolezza nell’indie gaming italiano. Ma una direzione mi sembra tracciata. E avendo io anche la (s)fortuna di essere proprio uno di quegli accademici appena citati, mi rendo conto che sono a un passo dal passo finale, verso questa etichettatura. Ma non voglio – non qui, perlomeno – andare effettivamente ad appicciarla da nessuna parte, questa etichetta del marginalismo videoludico italocentrico (bello, eh? Le definizioni cacofoniche si coniano che è un piacere). Voglio solo lasciarlo come spunto di riflessione e come personale speranza. C’è bisogno di qualcuno che raccolga queste memorie marginali. E che lo faccia senza che esse abbiano l’alito stantio e l’odore di naftalina sui vestiti. I videogiochi, con la loro serissima giocosità di cui parlavo più sopra, mi sembrano lo strumento più appropriato.



                                                                                                                                       Francesco Toniolo

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