SPECIALE - Ico & Shadow of the Colossus

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Ho creato il post unendo considerazioni maturate in questi anni, su Ico e Shadow of the Colossus. E’ lungo ma sentito, il giusto tributo nei confronti di due titoli che hanno cambiato la mia vita di videogiocatore. Fino allo spoiler è tutto perfettamente leggibile.
Parlo principalmente del secondo, visto che Ico continua a perdurare in esso. Del resto, non parlerò di colossi, colpi di scena e cose simili, avete tutto il diritto d’esperire SotC come una sorpresa, a parte le considerazioni sul finale, opportunamente celate.


Bando alle ipocrisie, SotC è in tutto e per tutto il seguito di Ico, potenzialmente, concettualmente, praticamente; si tende ad allontanarlo dal suddetto per semplici motivi affettivi, nella speranza che una possibile ciofeca non intacchi e non venga associata a questo gioco culto. In realtà, come è tipico dei grandi autori, registi, scrittori, pittori (riempire con una forma d’arte a piacere) vi è sempre un’idea che sublima dai nostri pensieri, un’ispirazione che è sempre alla ricerca di una forma migliore da abitare o forse, meglio, una forma diversa che muti il punto di vista originario per mostrare ed illustrare nuovi esiti.


Come per Ico, in SotC esiste sempre una forma di alterità, di confronto, di doverosa mutualità tra la singolarità ed il molteplice, il soggetto verso la coralità, il finito che duella con l’infinito. Non per una semplice scelta, per una ricerca intrinseca o per un capriccio dell’intelletto, quanto piuttosto per una serie di circostanze e contingenze che portano il protagonista in contesti dove il suo essere ed il suo coesistere stonano con l’imperitura immobilità che rappresenta il limite stesso della natura terrena.

Non smette di morire il protagonista di Ico finché non esce dal castello, è come se non fosse mai uscito dalla sua giara di morte, che non deve essere per forza oscura o violenta, anzi si palesa nelle ciclopiche mura e nell’aere lieve e sospeso, quasi una benedizione per i sepolcri alle sue fondamenta.



Eppure cambiare tutto affinché non cambi nulla. In SotC le nostre mura megalitiche sono state sostituite da bastioni d’aria che smarriscono ancora più di una colossale prigione e il filo dell’orizzonte amplifica la solitudine che non è più comunicata attraverso l’oggettività di una prigione di pietra ma attraverso il palesarsi del suo contrario, una natura sterminata che riunisce, in maniera assai “romantica” (intesa come movimento culturale) i concetti di solitudine e morte. Quindi il malessere esiste a prescindere da una connotazione oggettiva e negativa, è intorno a noi e perché no, dentro di noi.

Come in God of War, il viaggio è sinonimo di morte, un’odissea per mutare il destino malvagio e, anche in questo caso, un’impresa metafisica richiede un sforzo metafisico, un sacrificio.

E’ molto semplice parlare di SotC attraverso le sue determinazioni più immediate: si può parlare della maestosità e della grandezza dei colossi, della contrapposizione debolezza-potenza, dell’afflato epico che si sprigiona una volta raggiunta la sommità di una creatura, la musica di chiara ispirazione orchestrale e dalle tinte ora “peplumesche” ora tipicamente “sacrali”. L’esaltazione per il guadagno ottenuto, la forza sopita dei colossi che si evidenzia nel tentativo di scrollarsi di dosso l’indesiderato ospite, la portata titanica dell’impresa, il sacrificio da consegnare alla memoria. Ma si tratterebbe solo della superficie.

E’ una sensazione difficile da descrivere, il termine giusto da utilizzare è “mitologico”, sia in senso greco che biblico. E’ stato già sottolineato, ma occorre ritornarci, SotC è l’apologia del vuoto spaziale che è gemello del vuoto esistenziale. Il concetto di fondo da cui prende le mosse l’esperienza consiste nella volontà d’interrompere il silenzio degli eoni, un scontro fra un desiderio (il protagonista) e qualcosa che per sua stessa natura non costituisce una minaccia, ma semplicemente una realtà ontologica che trascende la pochezza terrena e che rimane imperitura al di fuori dell’usuale.
In SotC si abbatte il confine, fisicamente e concettualmente, dell’orizzonte, dove “Il Dio attende appena al di fuori della portata dell’occhio, riposa nascosto nella selva, sdraiato dentro una pozza d’acqua, all’ombra di una roccia, un attimo prima del vento.”

Non mi era mai accaduta una cosa simile giocando ad un vg, forse il primo Tomb Raider ma per motivi diversi.

Ogni volta che avanzavo verso un colosso avevo il cuore gravido d’angoscia, quasi fosse una malvagità perpetrata ai danni del cosmo, l’attesa un attimo prima che si palesasse, quella breve cutscene che indica il movimento titanico.
L’inizio della musica, ad esempio quella del quarto colosso, malinconica, struggente, il suo accucciarsi il quella polla verde, incurante della mia presenza: mi sono sentito veramente uno straniero, un alieno in un mondo alieno.
Abitanti di un mondo trapassato, dediti ad usanze morte, penso all’undicesimo, quello della torcia, custode insensato di un tempio distrutto ad ottemperare il nulla.


La natura circonda ma non è fonte di poesia, dolcezza o letizia. Non è un tumultuare di elementi, animali e piante, non è pienezza di vita che germoglia, fiorisce, fermenta, sprizza, balza, salta, svolazza, aleggia e canta; sono presenti un’infinità di simpatie e discordie, ma tutto è inerte, avvolto in un sudario che sbiadisce i contorni; ma è presente una parentela, s’intesse e si collega infine mediante un solo spirito vitale, la cui presenza superiore è sentita dal giocatore silenzioso con lo stesso brivido che si prova davanti all’ineffabile.

Qui l’unica religione imperante è la purezza dell’elemento immacolato, che sembra alimentarsi da sola nella luce circonfusa delle praterie montane, nei fiumi e nei laghi e nella ridente chiarezza che in ivi è sospesa. “Nei momenti di chiaroveggenza, ecco improvvisa apparire la forma, un dio o una dea, ora in sembianze umane, ora più vicina al mostruoso, all’animale”(Walter Otto).


Qui tutto è trasparente e leggero. La terra medesima ha perduto la sua pesantezza e il sangue dimentica le sue cupe passioni. Oppure si sente passare nell’aria una raffica di vento. Ecco lo spirito divino della natura sublime. Ed io ad interrompere questa stasi, per una questione di egoismo, o vista dal di fuori per un semplice meccanismo videoludico. Uccidere? Non si uccide forse qualcuno che abbia compiuto qualcosa di male? Ammesso e non concesso che questa di per sé sia una ragione valida.

La muta testimonianza ombrosa al mio risveglio, un consesso silente di presenze che mi contempla, troppo pesante, la voce dall’alto che mi sprona a proseguire il disgregamento pernicioso. Per afferrare bene il senso bisogna tornare nei luoghi dove i colossi, sconfitti, giacciono.
Terribile. Addirittura si può pregare su di loro, evocarne lo loro spirito errante, rendere un’ultima testimonianza. Il concetto di solitudine acquisisce un significato nuovo, più forte: il wanderer non è semplicemente “solo” poiché, in effetti, è l’unico essere umano presente nella Terra Proibita, è tale perché ontologicamente e moralmente solo.

In Ico il protagonista e Yorda si facevano forza l’uno con l’altra, forti, nonostante le avversità, della sete di giustizia applicabile al rango di prigionieri. Il wanderer scruta l’orizzonte ma non trova compagni o sostegni, Agro non può sostituire una presenza umana e, cosa ancora più grave, i colossi non condividono la medesima natura mortale. Stretto fra una natura morta ed entità divine, egli (o meglio il giocatore) comprende appieno il significato e la cifra ultima della sua impresa: non potrebbe trovarsi lì, il corso degli eventi e della logica si piegano innaturalmente sotto i fendenti della sua spada, l’uccisione di un colosso sancisce di volta in volta il peccato del wanderer/giocatore.


Parlare di SotC è una contraddizione in termini, ogni tentativo precedentemente fatto costituisce un’inutile quanto patetico tentativo di inquadrare la più controversa esperienza a mezzo videogioco mai esistita. L’orizzonte degli eventi si risolve nella dimensione escatologica che fa da sfondo al gioco.


La stasi è quella della morte, ma quello che preme sottolineare è il recupero del fenomeno come meccanismo emotivo privilegiato.
SotC, preso con il metro di giudizio tipico della produzione videoludica, si dimostra essenzialmente dislessico nel suo darsi, aggravato da una progressione fortemente episodica se paragonata, ad esempio, alla morbida curva evolutiva del celebre genitore putativo.
La stessa reiterazione dei colossi, un circolo infinitamente uguale a se stesso, in cui è negato l’apprezzamento sostanziale degli sforzi del giocatore. Gli approcci e le ermeneutiche da seguire sarebbero molteplici; in questo caso preme sottolineare l’evenienza di un fatto inedito, ossia che, per la prima volta nella storia del videogioco, idea e sostanza si riscoprono per suggellare un intimo patto si sussistenza-compresenza, ossia il principio di tutti i principi: cioè che l’intuizione originalmente offerente è una sorgente legittima di conoscenza, che tutto ciò che si dà principalmente nell’intuizione è da assumere come esso si dà, ma anche soltanto nei limiti in cui si dà (Husserl).

La poetica di SotC non è universale, o meglio non è universalmente riconoscibile senza l’apporto di categorie non appartenenti al demanio della sfera sensibile, sotto questo punto di vista si è perduto lo slancio superno dell’amore incondizionato di Ico, quest’ultimo epidermico nella sua manifestazione e quindi, per sua intrinseca natura, destinato a non suscitare ulteriori introspezioni oltre il ravvisabile.
Tutto sommato, istanze videoludiche rendevano il rapporto fra il protagonista di Ico e Yorda quasi strumentale, vista l’incapacità da parte del primo di superare i portali magici da solo. La loro forma così dissimile, le loro nature così diverse, l’incapacità di comunicare: caratteristiche dagli esiti alterni ed opposti, da una parte la codifica di un amore “ampio” che supera determinazioni fatte di cultura, natura e linguaggio, d’altro canto manca la potenza furiosa e la rabbia che esprime il wanderer nella sua irragionevole impresa di riportare in vita l’amata, un sentimento più forte, denso, viscerale, negativamente amplificato dal prezzo e dalle ingiustizie che egli paga e perpetra.

A parte questo, SotC spiazza: la verbalizzazione dei meccanismi soggiacenti la sua grammatica ludica non riescono a riassumere la contemporaneità degli eventi disgiunti, poiché, in ultima analisi, rispetto ad Ico, SotC manca di intenzionalità. Ossia, lo è in quanto prodotto interattivo, ma per il resto possono rintracciarsi tutta una serie di scelte al limite dell’errore grossolano che devono, per forza di cose, interrogare sull’opera di Ueda e soci.
Non esiste lo scorcio sublime, la verticalità imposta, il cinguettio degli uccelli a suggello di un’armonia tutta da vivere o meglio, esisterebbero anche ma in SotC l’ascoso è più evidente dell’evidenza.

Uno spazio vuoto, privo di insidie, svuotato di essenze (fatta eccezione per le lucertole, tributo da pagare per utopica scalata al tempio, utopica perché infruttuosa), non un nemico, non un amico se non Agro, nulla, anche di natura extra ludica come potrebbe essere una cutscene ad esempio).
Questo a dire che la presenza del wanderer (e di conseguenza del giocatore) provoca all’interno del contesto un effetto simile al vento che increspa una superficie acquosa. Un fenomeno inedito capace di non stravolgere l’essenzialità degli ambiti ma contemporaneamente foriero di nuove interazioni tra gli elementi costitutivi di questa realtà. Perché è questo che si vuole ottenere, gettare un sasso oltre il ciglio dell’abisso ed attendere un eventuale rumore perduto nelle immensità.
Il giocatore deve elevarsi (o viene involontariamente chiamato a ciò) a rango di pura entità sensibile attraverso il recupero doveroso della fenomenologia.




Ma non solo una semplice visione del mondo (che potrebbe riguardare tanto il fenomenologo quanto l’idealista), si tratta di risalire di livello in livello lungo le possibili accezioni e le molteplici sfumature del mondo: dal mondo materiale intuitivo si arriva gradualmente ad una realtà intrisa di natura intersoggettiva, o meglio una natura in cui è comune un'intersoggettività.
Non è una mera rielaborazione dell’accordo interno, SotC implica una struttura non sistematica della sensibilità basata su una motivazione epifanica, non immediatamente presente alla consapevolezza, anzi per certi aspetti, la comprensione raggiunge il giocatore solo ad esperienza conclusa. Nonostante l’inconscio sia, di per sé, un elemento creativo e fatto salvo di come l’anima fenomenica sia al di là di tutte le leggi di causa ed effetto pur essendone intrinsecamente avvinta.

SotC deve per forza di cose, purtroppo, essere vissuto attraverso l’apprezzamento del corpo sensibile che, in buona sostanza rappresenta in ultima analisi la gabbia epistemologica della sua vera essenza. Il corpo proprio, inevitabilmente, svolge un ruolo essenziale nel campo spirituale, riportandolo al suo originario senso estetico-sensibile ma, al tempo stesso, facendo meglio comprendere l’ampio spettro di condizionamenti che agiscono nei processi costitutivi propri del giocatore, tanto più articolati quanto più complesse sono le qualità eidetiche che costituiscono la trama materiale delle ragioni ontologiche.

Il limite più grande di SotC è proprio questo, si può parlare della meccanica ludica dei colossi, si può disquisire riguardo il suo presunto cordone ombelicale con Ico, meravigliarsi per la sua potenza immaginifica e concettuale, bearsi per la qualità delle musiche, ma in realtà questo titolo sfugge, con rammarico, alla determinazione ultima della sua vera essenza, fondando il suo valore sull’incomunicabilità.

Noi intuiamo i vissuti degli altri sulla base della percezione delle loro manifestazioni corporee, a volte attraverso la creazione veicolante e vincolante della loro spiritualità infusa in un prodotto artistico che sofistichi il registro comunicativo in una forma più conveniente. Questo è sicuramente un atto intuitivo, che offre una conoscenza, ma non è originalmente offerente, come si accennava poco sopra. Abbiamo esperienza originaria di noi stessi, e dei nostri stati di coscienza nella cosiddetta percezione interna o percezione di sé, ma non possiamo averla degli altri e dei loro vissuti per mezzo di ciò che si chiama “entropatia”.
L’esperienza “SotC” non è quindi condivisibile principalmente per questi motivi e, se non bastasse, il detrimento del fattore ludico costituisce uno sbarramento oltre il quale è difficile andare ed ancora, se si superasse questo ulteriore limite, si dovrebbe comunque convenire, affranti, sulle discutibili qualità emotive del titolo.

Tutto ciò rende questo titolo peculiare, la vera opera artistica dell’epoca a 128 bit (con tutte le connotazioni positive e negative che questa definizione reca seco), forse assimilabile a Killer 7 oppure Metal Gear Solid 2: Sons of Liberty.

Ma SotC non è titolo che si presta alle semplici pulsioni della sensibilità, all’epica potente di God of War, alle atmosfere soffuse di Ico, all’impressionante dimostrazione di superiorità tecnica di Resident Evil 4, all’ingegnoso meccanismo narrativo di Forbidden Siren. SotC trova e soddisfa gli inconsapevoli supplici dell’assoluto, spiazza con una rielaborazione del sublime dinamico come determinazione, apostola una filosofia della sottrazione, nega per attendere, si manifesta non come un miracolo ma come un’adesione involontaria.

Con una certa dose di liricità, è possibile rinvenire la grammatica austera del Vecchio Testamento, la logica della violenza, la codificazione di un linguaggio antropologico fatto di rapporti di forza, Dio che comanda ad Abramo di sacrificare Isacco. La moralità si riduce all’essenzialità del gesto, alla trasfigurazione del demanio della mortalità; la carne, il sangue, l’amore, la morte come moneta di scambio fra la temporalità e l’assoluto. Dormin coglie l’essere nel comando autoritario tipico del rapporto divinità-creatura, caratteristica delle religioni monoteiste, non sottolinea e non premia il disfacimento delle creature colossali, lo sguardo verticale della sua posizione ontologica non tiene conto delle contingenze, la descrizione del prossimo colosso suona nel contempo sia come monito che come epitaffio, il prima e dopo sono banditi, il risultato essenzialmente ininfluente.
Il giocatore/wanderer, a partire dalla negazione della sua identità specifica, si limita (per così dire, visto cosa è chiamato a compiere), ad eseguire, passivo nella volontà, nullo nelle decisioni, schiavo del proprio desiderio e, in quanto tale, materia plasmabile da un’intelligenza superiore che, come nelle mitologie primitive non è scevra da velleità personali (da non condividere, beninteso, con i mezzi per ottemperarle, il giocatore/protagonista nella fattispecie), la partecipazione ad una natura divina non immunizza da strumentalizzazioni.
Il sentore del male è in prima analisi derivato dalla presenza tangibile in un mondo diafano di cui si accennava sopra, e poi, successivamente, la dannazione del protagonista si ripercuote sulla sua pelle, a testimonianza di una realtà che muta, origina bene e male, sottolinea l’egoismo e testifica l’ingiustizia.

Facile trincerarsi dietro alla mancanza di sensibilità dei più, della detestabile formula “Non è un gioco per tutti” oppure lasciare che il pensiero si rivolga ancora una volta al porto franco che prende il nome di Ico, un’esperienza assimilata, digerita, rielaborata e per certi versi, di più semplice comprensione, ludicamente e concettualmente parlando. Già, quando dico che non è un gioco per tutti, non utilizzo l’accezione classica con cui i poeti del joypad escludono il prossimo, anzi, è mia ferma intenzione rispettare e salvaguardare i sacrosanti diritti di tutti coloro che concepiscono il videogioco come un delicato equilibrio di parti. Shadow è da annoverarsi (per certi aspetti di più, per altri meno) nel club delle esperienze viscerali assieme a titoli come Forbidden Siren, Killer 7 ecc. ecc. Giochi scomodi, irrisolti, lontani da tutto ciò che è riconoscibile, dotati di un anima che non viene fuori se si è sensibili/culturalmente preparati/eletti/straordinariamente intelligenti ma semplicemente fortunati, in senso cabalistico, non elitario.
Poiché il fenomeno-videogioco-fenomeno (una diade trifronte) , quello di cui si è parlato sin ora, abbisogna di un altro fenomeno per completarsi, il terremoto ed un battito d’ala, una data palindroma, un animo pronto a ridestarsi, lì ed ora. E tutto ciò non può essere impugnato come arma per spaccare in due il mondo della critica e degli utenti, per lanciare strali verso chi si diverte con esperienze ludiche che non riconosciamo come tali.
Non esiste che si guardi con commiserazione chi non apprezza oppure che si discetti di approcci ulteriori con frasi insensate del tipo “E’ un gioco che vuole comunicare questo, devi interrogarti, devi capire, cambiare ottica, non ti è venuto in mente che …”. Il mercato ne ha per tutti, entriamo ed usciamo dal concetto di massa a fasi ed in modalità diverse, SotC viene a parlare ad alcuni perché con altri balbetta, reca benevole pacche sulle spalle di altri ma non toccherebbe mai certuni per manifesta vergogna di sé. Anche e soprattutto per colpa sua.

Ci sono momenti un po’ infelici, ma sono francamente stufo di sacrificare vg sull’altare della telecamera perfetta che, se non si fosse capito, è utopica. SotC non provvederà da solo, ma almeno fornisce tutti gli strumenti per ovviare al problema.
I colossi: l’idea di fondo è quella di rendere sempre e comunque il concetto di “rapporto” dimensionale, avrebbero potuto farli più articolati, più complicati, più lunghi (tipo l’ultimo), invece si risolve tutto con una scalata ed una cavalcata, sempre e comunque. Ma non sono livelli, l’agonia deve essere palese, lo sprizzare e stillare del licore nero di cui anche il protagonista s’impregna, la rovina al suolo, la morte tangibile e vera. Ed ancora, proseguendo nella scia delle considerazioni, le sembianze dei colossi sono appropriate anche nella loro ridondanza. Un toro, un cavallo, svariate forme di serpente, umanoidi… Forme primitive per un mondo primitivo, il character design è bandito poiché facente parte del superfluo, l’ultimo non sembra simile agli altri, è quasi bardato di armatura, il Deus Ex sul monte Calvo.

Gli hint sono un bel problema, un pauroso scivolone, una diluizione del poco quid ludico che il titolo reca con sé. Ma ciò attesta quello che con Ico era già evidente, l’esperienza deve essere vissuta senza intoppi, senza impedimenti senza che pensieri foschi interrompano il suo fluire.
Come per Ico, manca l’affondo finale, quella cattiveria ludica che necessita del giocatore di razza, la pesantezza di un Forbidden Siren, l’intransigenza di un Ninja Gaiden.
Già, che esempi strampalati. Alcuni, nel sentire ciò, invocheranno il sacro diritto alla diversità, strutturale, intenzionale, ludica. Però il problema è proprio questo, esaminare la filosofia degli sviluppatori Sony, desiderosi di emozionare a prescindere.
Ico sussurra una poesia continua e suadente, un invito al tripudio emotivo a cui tutti sono invitati, ma quale natura interroga, quella di essere umano a prescindere dal mio rango di videogiocatore? Ci sono giochi che non chiamano, semplicemente sono, li prendi per mano, li fai tuoi ed alla fine nasce un emozione. L’emozione del risultato, l’emozione della sfida, l’emozione per la bella esperienza vissuta, l’istanza che ti chiama specificamente quasi come se il gioco non potesse esistere senza di te.
In Ico questo processo è ribaltato, la commozione è una premessa e questa premessa è sbattuta in faccia al giocatore attraverso una struttura stilistica che è concepita per essere fruita a prescindere, per evitare che qualcuno rimanga fuori da questa luce.

Cerco altro e questo altro, nei vg, mi deve dare le giuste motivazioni per non pentirmi di perdere il mio tempo di fronte ad un tubo catodico. Avrei voluto che qualcuno m’impedisse sul serio di portare via Yorda, avrei voluto che il castello fosse veramente una prigione da cui fuggire, un luogo maledetto in cui piangere insieme a Yorda invece che una semplice parata di scorci intimisti, avrei voluto che la leggerezza non fosse tale, avrei voluto che qualcuno mi chiamasse perché c’era qualcosa da risolvere.
Non uno stadio pieno di persone emozionate con il biglietto già pagato, a posti illimitati.

Le fondamenta della struttura di Ico si presentano profondamente derivative nella loro meccanica videoludica (un clone di Tomb Raider lineare, con casse e leve) e non soddisfano le esigenze delle tipologie di gioco che affronta, poiché l'elemento puzzle, che rappresenta un buon 50% del gioco, non rappresenta un reale coinvolgimento del pensiero laterale (leggi, una volta ottenuti tutti gli elementi è impossibile bloccarsi).
La parte platform (un altro 30%) possiede le stesse caratteristiche della serie Prince of Persia, ossia un solo tragitto, per una manualità assistita in ogni modo, per un level design che non presenta oscuri segni da interpretare. Ico va semplicemente percorso. La parte action (il rimanente 20%) vede una solo tipologia di nemico tormentare i due protagonisti sempre con il medesimo pattern e che può essere eliminato sempre nel medesimo modo.


Poi il senso è sempre distintamente chiaro. L’intimo rapporto di dipendenza che lega il giocatore a Yorda; la sospensione favolistica di un luogo fuori dal tempo; la tensione sublime (in senso kantiano) che accompagna i fragili avatar del giocatore in un contesto fatto di mura imponenti e verticalismi; la solitudine, la tristezza, quell’atmosfera pregna di morte e tutto quello che fa di Ico quello che è. Ma non è questo il punto. L’esempio serve a far capire cosa intendo per contaminazione ludica non efficace e soprattutto non decisiva, un approccio non dannoso che però risulta scadente (sempre ludicamente) perché nessuno dei suoi fattori è sufficientemente sviluppato.
O meglio risulta impeccabile alla luce delle velleità di Ico, la sua funzione poetica e quindi tutte e tre le componenti possono essere considerate “snodi”ma perché bisogna privarsi di una cosa in luogo di un’altra? Basta fare un parallelismo con Forbidden Siren, cosa sarebbe accaduto se si fosse lasciata intatta la sua storia ed il suo intreccio a scapito (e quindi privandolo concretamente) del suo poderoso gameplay?

Forbidden Siren non è solo Kyoya Suda, Datatsushi, la croce di Mana, Forbidden Siren è prima di tutto l’ansia per un tentativo andato a male, la disperazione per delle lanterne di cui non si capisce l’ordine, un cecchino che non ti lascia in pace. E quando abbiamo avuto ragione di questo, l’elezione è stata grande, superiore a tutto il resto, in cui, a questo punto, Datatsushi e compagnia si uniscono per creare qualcosa di mai visto prima, un’esperienza tutto tondo. Ma non è stato così per Ico, non riesco a vederlo come un buon vg a tutto tondo, è stato un sogno effimero, il desiderio di purezza, una fiaba anacronistica.


Questo per introdurre la natura di SotC che ne condivide in gran parte la leggerezza e l’inoffensività. Eppure SotC è un gioco migliore di Ico, poiché dotato di una personalità tutta sua, un tentativo non privo di sbavature ma almeno qui c’è il coraggio della sperimentazione, tecnica e ludica laddove Ico, nella meccanica, si riduce a quanto scritto poco sopra.
SotC non somiglia a nulla eppure, joypad alla mano, la scalata dei colossi non è cosa da tutti e per tutti non intendo il giocatore medio (che difficilmente troverà i propri polpastrelli inabili all’esecuzione) quanto piuttosto, l’esercito silente che ha promosso Ico, ossia le fidanzate, le madri, i fratellini ossia gli ostili al controller fino all’attimo precedente la scoperta di Ico e dei quali, quest’ultimo, si è dimostrato ostacolo assai poco pretenzioso. Con l’aggravante che SotC non è accogliente come Ico, anzi disgusta, allontana, stupisce in negativo “E’ tutto qui?!!”, “Non c’è altro da fare?!!”. No. Negare per escludere, escludere per esprimersi, esprimersi per gemere. Non è un non-gioco, forse, anzi probabilmente, è un gioco fatto male, ma quanto coraggio!

E tutto sommato, in questa ultima parte non ho fatto altro che contraddire tutto ciò che ho scritto precedentemente o meglio, non si può far a meno di ridurre il fenomeno ad una sequela di argomentazioni atte a convincere il prossimo di qualcosa. Fine doverosa di quel goffo tentativo di “squadrare la parola da ogni lato”…

Il consiglio è quello di esperire, sempre e comunque, basandosi su di un sano utilizzo della curiosità, senza forzare la propria natura. Si, questa è arte e per prima volta nella mia vita trovo assai difficile “complicare” il discorso con categorie di raffronto oggettive. Cosa c’è da dire? Perché dobbiamo dircelo? Parliamo come pionieri nella nebbia, dubbiosi su quell’immagine fugace che è trapelata attraverso il candore, una città perduta, un pinnacolo, un uomo che fuggiva…"L’hai vista anche tu?" "Si l’ho vista…". E tanto basta, non occorrono ulteriori specificazioni, “ le parole tolgono senso al senso…”





Per i più curiosi:


[ATTENZIONE! SPOILER A SEGUIRE]


SotC è il prequel di Ico, il bambino nasce con le corna dando via al culto che osteggia le incarnazioni di Dormin ghettizzandole nel castello. A questo punto il rapporto fra Yorda ed Ico si ridefinisce, è quasi un ritrovarsi.
E’ la storia di un amore che supera la materialità della morte ma paga pegno, la condanna è già stata emessa nel momento in cui il protagonista ha rubato la spada. Dormin fa notare che la legge naturale dei mortali implica la morte, il consiglio a desistere arriva nel momento in cui dice che il prezzo da pagare sarà alto. La crudeltà di non poter godere dei frutti della sua impresa, una pelle che a poco a poco si tinge d’oscurità, un calice amaro da bere per una letizia, il raggiungimento dell’Eden, il giardino al di sopra del tempio, che in realtà non esiste e non può essere vissuto.

Stretta tra mura fatiscenti con l’erba che si fa strada a fatica tra le mattonelle erose. Un orizzonte cieco, c’è la natura ma non è viva, c’è un essere femminile con tutte le categorie rimosse al di fuori della maternità…
Abiteranno quel mondo? Perché è successo? Dormin, in principio parlava con una doppia voce, una maschile, l’altra femminile. A mano a mano quest’ultima è scomparsa, perché? Yorda…e se fosse Mono? E se la voce femminile dipartita fosse la strega di Ico, memore del peccato originale ed intenzionata a far pagare lo scotto?

Non è giusto, non è naturale, esula dal concetto stesso di finale positivo o negativo, le schermate finali rimandano a un futuro che non può essere tale, una tristezza che non trova parole o sfogo, non la definisci, semplicemente ti lascia desolato, mesto, con lacrime asciutte che non trovano la strada del viso.



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