Prosegue il nostro piccolo, grande viaggio, alla scoperta degli OW. In questo secondo articolo proveremo a tracciare la storiografia del genere, dalle origini alle più recenti incarnazioni, cercheremo inoltre di porre una questione spinosa: in questa tipologia di titoli, sia che venga definita una categoria o una sub-categoria, c'è un vero e proprio vizio di forma. È possibile approcciarsi a questi titoli con metodologie standard di classificazione ed analisi? È realmente possibile recensire un gioco che spalma la propria esperienza su centinaia di ore?
Il primo gioco, ufficiosamente definito "open-world" fu Jet Rocket, un videogioco arcade basato su un sistema di videoproiezione pubblicato da SEGA nell'agosto del 1970. Verso la fine degli anni '60, i produttori di arcade giapponesi Kasco e SEGA introdussero un nuovo tipo di gioco elettromeccanico, i video-projection game. Questi giochi, a cabinato, erano simili ai videogiochi arcade e prevedevano l'utilizzo di proiezioni ed immagini "retro" a video posteriori, per visualizzare animazioni in movimento su uno schermo video. I videogiochi con video proiezione divennero molto comuni nelle sale giochi degli anni settanta. Essi combinarono elementi elettromeccanici e stimolazioni video, gettando le basi per i famosi ed inossidabili videogiochi arcade, che conseguentemente adattarono il design dei cabinet e le meccaniche di gioco dai precedenti videogiochi. Si potrebbe definire, senza troppo sforzo, l'epoca primitiva dei videogiochi arcade. Jet Rocket di SEGA introdusse il movimento di volo in un roaming libero in un paesaggio 3D open-world, per la prima volta in un gioco elettronico, i giocatori volavano a bordo di un Jet utilizzando una prospettiva in prima persona e sparando a vari punti di riferimento attraverso il mondo di gioco operando scelte esclusivamente dettate dalle loro scelte, libere.
Questo lo rese il primo gioco elettronico di fatto open-world. Jet Rocket ispirò diversi cloni successivi come Target Zero (della Bally) e Flotilla (di Williams), entrambi rilasciati nel Dicembre del 1970. Il primo gioco con un mondo interamente aperto è invece considerato erroneamente Ultima, (Ultima I: The First Age of Darkness) che permise ai giocatori di esplorare un mondo fantasy totalmente aperto, ma volendo essere estremamente puntigliosi, fu dopo che Dungeons & Dragons, il leggendario gioco da tavolo carta penna e dadi di Gary Gainax & Co, fu il primo ad offrire un mondo totalmente "free" nella fantasia di milioni di giocatori. Ultima I: The First Age of Darkness è un gioco bizzarro per numerosi aspetti, il suo creatore Richard Garriot, ha iniziato un'autentica tradizione, inserendo il suo alter ego digitale, Lord British, come personaggio principale nel gioco. La sua grafica ultra-semplicistica ma a suo modo sofisticata per l'epoca, non gli ha mai concesso alcun favore da parte della maggioranza dei giocatori moderni, ma a suo tempo l'originale Ultima fu un titolo davvero rivoluzionario. Ogni gioco di ruolo che abbiamo giocato ha un debito di riconoscenza enorme con questo titolo, da Final Fantasy a World of Warcraft. La serie avrebbe poi aperto la strada allo stile del crawler in prima persona 3D in FP che avrebbe portato a diventare The Elder Scrolls, un fenomeno popolare e come se non bastasse Ultima avrebbe creato il moderno mondo di gioco MMORPG -
I giochi open world moderni sono stati pesantemente influenzati dai primi titoli a 8 bit. Molti giochi di ruolo fantasy degli anni 80th avevano il concetto di "overworld", ovvero un'area della mappa più grande che collegava i diversi livelli del gioco e diverse posizioni da raggiungere. La serie Ultima, come detto in precedenza, segna uno dei primi usi di sviluppo dell'overworld o "mondo sotterraneo" ma molti giochi hanno emulato i mondi overworld di Ultima, in particolare quelli basati su ambientazioni/tematiche fantasy. L'esempio più importante in questa categoria è la serie Dragon Quest. In ciascuno di questo tipologia di giochi overworld, la maggior parte dell'azione (o almeno la maggior parte dell'azione di avanzamento della trama) si svolge in città, foreste, sotterranei, grotte, castelli (e l'area circostante), campi, fortezze, e persino corpi celesti (ad esempio la luna) e altri luoghi. Un avatar del giocatore quindi poteva vagare attraverso una mappa con una visuale dall'alto prima di imbattersi in aree speciali come città o dungeon. Il più riconoscibile esempio di gioco overworld è senza dubbio The Legend of Zelda (1986). La vista dall'alto di Link che vaga per le aree boscose e scende nei sotterranei è un primo faro che tenta di illuminare una tipologia di giochi, cosiddetti, ad esplorazione aperta. Il nonno dei giochi overworld - uno che aveva influenzato l'originale Zelda - era stato il citato Ultima (RPG storico del 1981). Che offriva una mappa del mondo virtuale in accesso al giocatore ma aveva un problema: non era in scala, a differenza di Zelda, che invece lo era. Questo aspetto è un elemento interessante, Zelda stava già cercando di eliminare un certo grado di simulazione, noi di fatto, eravamo Link. Questi giochi "overworld" in seguito, hanno poi ispirato un'intera era di giochi come Dragon Quest (1986), Hydlide (1984) e persino Super Mario 64 (1996) ma ce ne sono moltissimi altri, impossibile nominarli tutti. Tali giochi sono stati caratterizzati principalmente e concettualmente ispirati a giochi fantasy influenzati a loro volta da giochi da tavolo e di ruolo (RPG) creati da Dungeons & Dragons. Ma entro il 21° secolo, una nuova era del concetto di giochi open world stava applicando queste meccaniche fantastiche ad una materia molto più realistica e matura che avrebbe sollevato e trasformato l'industria radicalmente, offrendo nuovi mondi da solcare mondi virtuali.
OPEN REVIEW
Le cosiddette recensioni stanno progressivamente perdendo di vista l'aspetto più importante dei videogiochi a nostro dire: riuscire a comunicare un'esperienza che raramente è unidirezionale.
Come abbiamo analizzato in altre sedi, da vere e proprie brochure per l'acquisto, che offrono sostanzialmente consigli di carattere commerciale, se si esclude un periodo particolarmente aureo in cui alcune teorie dei Game Studies sono sporadicamente emerse (indicativamente negli anni 1999/2013) da diverse riviste del settore (spesso controparti tradotte ma con titolazioni alquanto fumose) le riviste si sono sempre mantenute a debita distanza da certe declinazioni teoriche. Lo stesso dicasi per le controparti digitali. Oggigiorno le recensioni si stanno concentrando ad offrire una sorta di guida strategica sui gusti emotivi di chi scrive, massimizzando la fruizione sensitiva di ogni singolo gioco, come se si trattasse di una sorta di vademecum scrupolosamente da seguire, cercando di accomunare (per quanto più possibile) l'esperienza maturata, per forza di cose vincolata del recensore, rapportandola in numerosi punti e costringendola, o meglio assecondandola a quella dei potenziali giocatori, naturalmente interessati al gioco in questione. C'è un errore di forma, io credo, in questa visione generica. Viene sempre dimenticato che ogni viaggio è unico e appartiene al singolo viaggiatore e che non è accomunabile, se non in minima parte.
Si parla sempre, in questi casi, ed è bene tenerne conto, di recensioni fortemente vincolate ad un extra mondo. I tempi editoriali, spesso stretti, e il progressivo aumento delle ore dei giochi non permettono più di leggere un gioco facilmente come prima, con la stessa vena pragmatica di consumo ed assimilazione, ma ben più grave, non permettono più di raccontarlo come prima. A tal proposito creò un certo scandalo nel settore, condiviso anche in chi vi scrive, quando si scoprì che assieme alle review-copy del gioco, da distribuire ai portali di videogiochi, venne inclusa per Assassin's Creed: Odyssey una sorta di bonus content esclusivo per i recensori che permetteva loro agevolmente di saltare le caratteristiche meno piacevoli del gioco, ovvero l'accumulo di livelli, penosamente lento, prima di qualche opportuno aggiustamento oppure la creazione del nostro equipaggiamento che spesso richiamava tempi biblici di accumulazione. Il contenuto bonus includeva inoltre punti di ingresso ad alcuni snodi narrativi, che il giocatore avrebbe raggiunto solo dopo molte ore di gioco, come Atene. A questa autentica metodologia lavorativa e d'approccio, che alcuni giornalisti ed amici mi hanno confermato essere una prassi piuttosto comune nel loro mondo professionale, vanno legate alcune risolutive considerazioni in merito.
LE ORIGINI DEGLI OW
Il primo gioco, ufficiosamente definito "open-world" fu Jet Rocket, un videogioco arcade basato su un sistema di videoproiezione pubblicato da SEGA nell'agosto del 1970. Verso la fine degli anni '60, i produttori di arcade giapponesi Kasco e SEGA introdussero un nuovo tipo di gioco elettromeccanico, i video-projection game. Questi giochi, a cabinato, erano simili ai videogiochi arcade e prevedevano l'utilizzo di proiezioni ed immagini "retro" a video posteriori, per visualizzare animazioni in movimento su uno schermo video. I videogiochi con video proiezione divennero molto comuni nelle sale giochi degli anni settanta. Essi combinarono elementi elettromeccanici e stimolazioni video, gettando le basi per i famosi ed inossidabili videogiochi arcade, che conseguentemente adattarono il design dei cabinet e le meccaniche di gioco dai precedenti videogiochi. Si potrebbe definire, senza troppo sforzo, l'epoca primitiva dei videogiochi arcade. Jet Rocket di SEGA introdusse il movimento di volo in un roaming libero in un paesaggio 3D open-world, per la prima volta in un gioco elettronico, i giocatori volavano a bordo di un Jet utilizzando una prospettiva in prima persona e sparando a vari punti di riferimento attraverso il mondo di gioco operando scelte esclusivamente dettate dalle loro scelte, libere.
Questo lo rese il primo gioco elettronico di fatto open-world. Jet Rocket ispirò diversi cloni successivi come Target Zero (della Bally) e Flotilla (di Williams), entrambi rilasciati nel Dicembre del 1970. Il primo gioco con un mondo interamente aperto è invece considerato erroneamente Ultima, (Ultima I: The First Age of Darkness) che permise ai giocatori di esplorare un mondo fantasy totalmente aperto, ma volendo essere estremamente puntigliosi, fu dopo che Dungeons & Dragons, il leggendario gioco da tavolo carta penna e dadi di Gary Gainax & Co, fu il primo ad offrire un mondo totalmente "free" nella fantasia di milioni di giocatori. Ultima I: The First Age of Darkness è un gioco bizzarro per numerosi aspetti, il suo creatore Richard Garriot, ha iniziato un'autentica tradizione, inserendo il suo alter ego digitale, Lord British, come personaggio principale nel gioco. La sua grafica ultra-semplicistica ma a suo modo sofisticata per l'epoca, non gli ha mai concesso alcun favore da parte della maggioranza dei giocatori moderni, ma a suo tempo l'originale Ultima fu un titolo davvero rivoluzionario. Ogni gioco di ruolo che abbiamo giocato ha un debito di riconoscenza enorme con questo titolo, da Final Fantasy a World of Warcraft. La serie avrebbe poi aperto la strada allo stile del crawler in prima persona 3D in FP che avrebbe portato a diventare The Elder Scrolls, un fenomeno popolare e come se non bastasse Ultima avrebbe creato il moderno mondo di gioco MMORPG -
Nel 1984 - tre anni dopo l'uscita di Ultima - venne pubblicato Elite, un indimenticato gioco di trading spaziale, esplorazione, combattimento pubblicato originariamente da Acornsoft nel 1984 per i computer BBC Micro e Acorn Electron. La titolazione stessa del gioco deriva da uno degli obiettivi da raggiungere che il giocatore doveva archiviare, potendo esplorare un'intera galassia a sua disposizione, fino a diventare appunto "Elite" dell'universo. Tale onorificenza poteva essere raggiunta attraverso la pirateria, il commercio, missioni militari, body-hunting, ed estrazione di asteroidi. Il denaro generato da queste numerose imprese consentiva ai giocatori di aggiornare le loro navi con miglioramenti come armi più potenti, scudi più resistenti, una maggiore capacità di carico, un sistema di aggancio automatico e altro ancora fino a diventare appunto vertici dell'universo. Fa riflettere che le prime sperimentazioni sul genere furono dedicate rispettivamente a mondi fantasy e sci-fi. Già allora era chiaro che la massima aspirazione di un videogiocatore era quella di visitare mondi distanti dal loro, che si trattasse della Terra di Mezzo o di Dune. A margine di questo tuttavia, questi giochi infransero le regole del game-design a livello lineare che allora era lo standard, per offrire qualcosa di realmente nuovo.
OVERWORLD
I giochi open world moderni sono stati pesantemente influenzati dai primi titoli a 8 bit. Molti giochi di ruolo fantasy degli anni 80th avevano il concetto di "overworld", ovvero un'area della mappa più grande che collegava i diversi livelli del gioco e diverse posizioni da raggiungere. La serie Ultima, come detto in precedenza, segna uno dei primi usi di sviluppo dell'overworld o "mondo sotterraneo" ma molti giochi hanno emulato i mondi overworld di Ultima, in particolare quelli basati su ambientazioni/tematiche fantasy. L'esempio più importante in questa categoria è la serie Dragon Quest. In ciascuno di questo tipologia di giochi overworld, la maggior parte dell'azione (o almeno la maggior parte dell'azione di avanzamento della trama) si svolge in città, foreste, sotterranei, grotte, castelli (e l'area circostante), campi, fortezze, e persino corpi celesti (ad esempio la luna) e altri luoghi. Un avatar del giocatore quindi poteva vagare attraverso una mappa con una visuale dall'alto prima di imbattersi in aree speciali come città o dungeon. Il più riconoscibile esempio di gioco overworld è senza dubbio The Legend of Zelda (1986). La vista dall'alto di Link che vaga per le aree boscose e scende nei sotterranei è un primo faro che tenta di illuminare una tipologia di giochi, cosiddetti, ad esplorazione aperta. Il nonno dei giochi overworld - uno che aveva influenzato l'originale Zelda - era stato il citato Ultima (RPG storico del 1981). Che offriva una mappa del mondo virtuale in accesso al giocatore ma aveva un problema: non era in scala, a differenza di Zelda, che invece lo era. Questo aspetto è un elemento interessante, Zelda stava già cercando di eliminare un certo grado di simulazione, noi di fatto, eravamo Link. Questi giochi "overworld" in seguito, hanno poi ispirato un'intera era di giochi come Dragon Quest (1986), Hydlide (1984) e persino Super Mario 64 (1996) ma ce ne sono moltissimi altri, impossibile nominarli tutti. Tali giochi sono stati caratterizzati principalmente e concettualmente ispirati a giochi fantasy influenzati a loro volta da giochi da tavolo e di ruolo (RPG) creati da Dungeons & Dragons. Ma entro il 21° secolo, una nuova era del concetto di giochi open world stava applicando queste meccaniche fantastiche ad una materia molto più realistica e matura che avrebbe sollevato e trasformato l'industria radicalmente, offrendo nuovi mondi da solcare mondi virtuali.
OPEN REVIEW
Le cosiddette recensioni stanno progressivamente perdendo di vista l'aspetto più importante dei videogiochi a nostro dire: riuscire a comunicare un'esperienza che raramente è unidirezionale.
Come abbiamo analizzato in altre sedi, da vere e proprie brochure per l'acquisto, che offrono sostanzialmente consigli di carattere commerciale, se si esclude un periodo particolarmente aureo in cui alcune teorie dei Game Studies sono sporadicamente emerse (indicativamente negli anni 1999/2013) da diverse riviste del settore (spesso controparti tradotte ma con titolazioni alquanto fumose) le riviste si sono sempre mantenute a debita distanza da certe declinazioni teoriche. Lo stesso dicasi per le controparti digitali. Oggigiorno le recensioni si stanno concentrando ad offrire una sorta di guida strategica sui gusti emotivi di chi scrive, massimizzando la fruizione sensitiva di ogni singolo gioco, come se si trattasse di una sorta di vademecum scrupolosamente da seguire, cercando di accomunare (per quanto più possibile) l'esperienza maturata, per forza di cose vincolata del recensore, rapportandola in numerosi punti e costringendola, o meglio assecondandola a quella dei potenziali giocatori, naturalmente interessati al gioco in questione. C'è un errore di forma, io credo, in questa visione generica. Viene sempre dimenticato che ogni viaggio è unico e appartiene al singolo viaggiatore e che non è accomunabile, se non in minima parte.
Si parla sempre, in questi casi, ed è bene tenerne conto, di recensioni fortemente vincolate ad un extra mondo. I tempi editoriali, spesso stretti, e il progressivo aumento delle ore dei giochi non permettono più di leggere un gioco facilmente come prima, con la stessa vena pragmatica di consumo ed assimilazione, ma ben più grave, non permettono più di raccontarlo come prima. A tal proposito creò un certo scandalo nel settore, condiviso anche in chi vi scrive, quando si scoprì che assieme alle review-copy del gioco, da distribuire ai portali di videogiochi, venne inclusa per Assassin's Creed: Odyssey una sorta di bonus content esclusivo per i recensori che permetteva loro agevolmente di saltare le caratteristiche meno piacevoli del gioco, ovvero l'accumulo di livelli, penosamente lento, prima di qualche opportuno aggiustamento oppure la creazione del nostro equipaggiamento che spesso richiamava tempi biblici di accumulazione. Il contenuto bonus includeva inoltre punti di ingresso ad alcuni snodi narrativi, che il giocatore avrebbe raggiunto solo dopo molte ore di gioco, come Atene. A questa autentica metodologia lavorativa e d'approccio, che alcuni giornalisti ed amici mi hanno confermato essere una prassi piuttosto comune nel loro mondo professionale, vanno legate alcune risolutive considerazioni in merito.
In primis, si poterebbe definire parzialmente falsata una recensione che si sviluppa con una sorta di alleggerimento dei contenuti di gioco per motivi essenzialmente commerciali: tagliando le attività più bolse è chiaro che il giudizio maturato in sede di recensione, non possa che essere più positivo di quanto in effetti non sia. Poniamo il caso che un gioco proponga un significativo aumento di ore per accumulare un materiale che non tarderemmo a definire prezioso ai fini del gioco e del divertimento. Supponiamo che questo materiale serva per ottenere più longevità di gioco o più feature stesse. Tale moneta di scambio serve inoltre per aver accesso a contenuti esclusivi del gioco. Ora immaginiamo che nella versione inviata ai giornalisti venisse incluso una riserva di questo prezioso materiale. Ipotizziamo che ciò venisse fatto per aiutare il recensore nel gravoso compito dell'analisi, al fine di riuscire perfettamente a capire i punti di forza del gioco ed i suoi punti deboli.
Ammettiamo candidamente che questa scelta fosse perpetrata a favore dei giocatori e non spinta da esigenze commerciali da riversare direttamente sui potenziali acquirenti. Su tale base, è interessante e significativo dare una letta a questo interessante articolo di Polygon:
https://www.polygon.com/2018/10/3/17931920/assassins-creed-odyssey-level-grinding-microtransaction-problem
Cosa avverrà invece quando il giocatore acquisterà il prodotto trovandosi in ben altra situazione e sarà costretto ad armeggiare con una ben differente prassi ludica? Cosa succederà se l'accumulo del materiale, generosamente elargito gratuitamente ai recensori nelle press-review, sarà invece lungo e tedioso per il giocatore, nella versione finale del gioco, ovvero quella che raggiunge gli scaffali?
È semplice, buona parte delle considerazioni in sede recensoria non potranno se non per forza di cose, rappresentare la sola ed unica realtà di quello che il recensore ha trovato in un gioco che è significativamente differente rispetto a quello che viene venduto all'acquirente finale. Non stiamo dicendo che l'operato del recensore è privo di valore, o invalidato in qualche modo. Stiamo dicendo che questo modo di approccio non aiuta l'utente finale a capire cosa offra un'avventura aperta. per esempio non mancano i giochi che offrono caratteristiche veramente interessanti dopo la conclusione del main-game.
Concludendo questa seconda parte, cui seguirà una terza, senza dubbio, ci sentiamo di chiarire che i videogiochi OW sono diventati macchine complesse, autentici portali verso mondi virtuali colmi di attività, spesso solo nozionistiche e spesso anche ripetitive, ma che istigano il giocatore/viaggiatore a restare per quanto più possibile sul luogo o iper-luogo, per un ammontare di ore veramente (e finora) insperato. Per tali motivazioni i videogiochi (nello specifico tripla A) per noi sono veramente impossibili da raccontare. A nostro dire, bisognerebbe coniare una nuova forma di recensione, come da titolazione "Open Review" cercando di non confondere la narrazione valoriale dei resoconti delle esperienze videoludiche con le presunte storie narrate dai videogiochi, poiché il resoconto non è l'esperienza stessa ma quanto noi riusciamo a trarne. Su questo aspetto ce ne sarebbe da dire.
Ammettiamo candidamente che questa scelta fosse perpetrata a favore dei giocatori e non spinta da esigenze commerciali da riversare direttamente sui potenziali acquirenti. Su tale base, è interessante e significativo dare una letta a questo interessante articolo di Polygon:
https://www.polygon.com/2018/10/3/17931920/assassins-creed-odyssey-level-grinding-microtransaction-problem
Cosa avverrà invece quando il giocatore acquisterà il prodotto trovandosi in ben altra situazione e sarà costretto ad armeggiare con una ben differente prassi ludica? Cosa succederà se l'accumulo del materiale, generosamente elargito gratuitamente ai recensori nelle press-review, sarà invece lungo e tedioso per il giocatore, nella versione finale del gioco, ovvero quella che raggiunge gli scaffali?
È semplice, buona parte delle considerazioni in sede recensoria non potranno se non per forza di cose, rappresentare la sola ed unica realtà di quello che il recensore ha trovato in un gioco che è significativamente differente rispetto a quello che viene venduto all'acquirente finale. Non stiamo dicendo che l'operato del recensore è privo di valore, o invalidato in qualche modo. Stiamo dicendo che questo modo di approccio non aiuta l'utente finale a capire cosa offra un'avventura aperta. per esempio non mancano i giochi che offrono caratteristiche veramente interessanti dopo la conclusione del main-game.
Concludendo questa seconda parte, cui seguirà una terza, senza dubbio, ci sentiamo di chiarire che i videogiochi OW sono diventati macchine complesse, autentici portali verso mondi virtuali colmi di attività, spesso solo nozionistiche e spesso anche ripetitive, ma che istigano il giocatore/viaggiatore a restare per quanto più possibile sul luogo o iper-luogo, per un ammontare di ore veramente (e finora) insperato. Per tali motivazioni i videogiochi (nello specifico tripla A) per noi sono veramente impossibili da raccontare. A nostro dire, bisognerebbe coniare una nuova forma di recensione, come da titolazione "Open Review" cercando di non confondere la narrazione valoriale dei resoconti delle esperienze videoludiche con le presunte storie narrate dai videogiochi, poiché il resoconto non è l'esperienza stessa ma quanto noi riusciamo a trarne. Su questo aspetto ce ne sarebbe da dire.
«Viaggiare significa incontrare altro dall'abituale ed esporsi liberamente nell'apertura del mondo »MBF
2 Commenti
World of warcraft has borrowed heavily from many games not just the one mentioned. It is a straight rip-off from other titles including dungeons and dragons and warhammer. Not to say that I do not love it though, its one of my favorites of all time and I have a lot of fond memories traversing azeroth.
RispondiEliminahttps://aab-edu.net/
It is undoubtedly true WOW was an excellent example of a title that uses "landscaping" as a communicative form of experience. It cannot be separated from gameplay
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